La visione di OpenDot sulla Manifattura 4.0

Parlare di manifattura, e soprattutto farlo oggi, può sembrare desueto.
Il mondo si digitalizza e dematerializza, l’attenzione dell’industria e della politica è più sulle app che non sui prodotti, sulle startup che non sulla manifattura locale. Eppure è proprio perché il mondo si smaterializza, che gli oggetti che abbiamo attorno a noi diventano più importanti.
Occupano uno spazio fisico, occupano il nostro tempo, occupano la nostra attenzione: tutte risorse che oggi sono diventate particolarmente preziose.

Per millenni abbiamo prodotto oggetti affidandoci principalmente all’esperienza degli artigiani: persone che dedicavano la loro vita per imparare tutti i dettagli di una singola arte, di un singolo mestiere, di un singolo materiale. Gli oggetti che ne uscivano unici, su misura e ogni volta adattati alle diverse necessità. Solo che erano pochi, e quindi costosi. Non riuscivamo più a produrre abbastanza per quello che volevamo consumare.
La rivoluzione industriale non è nata per questo, ma è sicuramente una parte del motivo del suo successo. L’industria ha portato nel mondo un concetto prima sconosciuto: l’incredibile precisione nella replicazione che le macchine hanno.

Ora, col passare degli anni, questa omologazione, che è diventato un po’ il sinonimo dei processi industriali, si è trasformata da un grande vantaggio, prima assolutamente impossibile, in un limite. Mano a mano che siamo diventati più bravi a produrre industrialmente, ne abbiamo capito i limiti. Che si tratti delle conseguenze ambientali, sociali, economiche, di usabilità e di inclusività, i difetti di questo sistema emergono sempre più visibili.

Alcune nuove tecnologie, che oggi chiamiamo di fabbricazione digitale, sono arrivate a proporre un approccio diverso: produrre localmente, su piccola scala, prodotti precisi come quelli industriali, ma flessibili e adattabili come quelli artigianali.
La più famosa è sicuramente la stampa 3D, ma ce ne sono molte altre che consentono di fare un singolo pezzo, così come 100 pezzi tutti uguali o 100 pezzi leggermente diversi uno dall’altro. Naturalmente non si tratta solo di flessibilità.
Poter produrre localmente quello che serve, quando serve, ridistribuendo la capacità produttiva dalle grandi fabbriche nei paesi in cui la manifattura costa poco, a dove le persone utilizzeranno l’oggetto stesso, è una piccola rivoluzione.

Nel contesto produttivo italiano in cui la produzione è legata spesso a lusso, moda, design, qualità e tradizione, spesso la tecnologia è spesso guardata con sospetto. La nostra posizione è naturalmente diversa: OpenDot è un Fab Lab, ovvero un laboratorio che mette le tecnologie di fabbricazione digitale a disposizione di tutti e le usa per realizzare progetti e processi, altrimenti impossibili. Per noi la tecnologia è uno strumento, potente e flessibile, che abilita i progetti, ma non è mai sufficiente a giustificarli.

Un esempio particolarmente interessante è la collaborazione con Atelier Versace, che ci ha contattato per realizzare delle parti di un abito, la cui geometria doveva essere molto precisa. I loro artigiani non erano in grado di garantire un simile risultato: l’abito in questione era molto scultoreo e necessitava di alcune parti in metallo dorato che dessero rigidità alle curve principali dell’abito stesso.

Alla fine della presentazione l’head designer, vedendo le potenzialità della stampa 3D, andò a frugare nei cassetti della sua scrivania. Ci portò uno sketch basato su un dipinto dell’800 di una cintura che avrebbe sempre voluto fare, ma riteneva fosse impossibile.
La forma era effettivamente molto complessa e non sarebbe stato possibile ottenere quel risultato.

La scintilla che è scattata nella sua mente è esattamente il risultato che cerchiamo di ottenere con gli artigiani e con il mondo manifatturiero: guardare alle tecnologie come strumenti in grado di concretizzare idee e progetti altrimenti impossibili. Una nuova opportunità, non un’imposizione dei tempi che distrugge tradizione e creatività.

Il cambiamento fondamentale è che noi portiamo le tecnologie sul tavolo del brainstorming, non su quello dello sviluppo. Per noi sono elementi del processo creativo, non produttivo. Le tecnologie digitali abilitano dunque a pensare e aprono nuove strade altrimenti impossibili. Il nostro obiettivo è quello di (ri)conciliare tecnologia e creatività.

Proprio perché viviamo in un’epoca digitale, gli oggetti fisici assumono un aspetto identitario e di rappresentazione. E’ un piacere avere e usare un oggetto unico, su misura, di qualità, di cui conosciamo la storia e magari di cui conosciamo anche il produttore. In altri casi più specifici la ricerca dell’unicità assume un’altra accezione: quella di necessità vera e propria.

Un esempio è il lavoro che OpenDot ha fatto sulla disabilità, mondo che avrebbe molto bisogno di prodotti belli e ben progettati. Spesso però l’approccio è quello di “risolvere un problema”, anziché capire che prima del problema c’è la persona. E questa persona, come tutti noi, oltre a dover portare delle scarpe speciali magari ha delle preferenze su colori, forme, dettagli…

Il mondo della disabilità è molto complesso e OpenDot ha avuto la fortuna negli anni di collaborare con varie realtà molto interessanti. In particolare Fondazione TOG –Together To Go, una onlus che si prende cura di più di cento bambini senza costi per le famiglie e senza fondi pubblici. Sono bambini che hanno bisogno di terapia continua, molto personalizzata, per cui a volte mancano soluzioni adatte a loro, acquistabili in negozio.
Insieme abbiamo co-progettato molte soluzioni su misura che sono poi diventate prodotti raccolti sotto il brand UNICO – The Other Design, dalle scarpe personalizzate per contenere tutori a strumenti per facilitare il disegno e la scrittura.


Esempio paradigmatico è quello della bicicletta di Lorenzo: un oggetto interamente realizzato su misura per essere non solo una bicicletta ma uno strumento riabilitativo. Fresata a controllo numerico in legno, assemblata a mano, personalizzata sui gusti di Lorenzo e studiata insieme ai terapisti perché ogni movimento non solo fosse eseguito correttamente ma anche aiutasse Lorenzo a fare la terapia di cui ha bisogno.

La disabilità è solo un esempio: sono molti gli ambiti in cui le tecnologie possono portare una trasformazione tecnica da un lato ma soprattutto di forma mentis dall’altro.

Milano da questo punto di vista è un caso di eccellenza in Italia e da sempre una città manifatturiera. Dapprima con grandi fabbriche, nel momento in cui il driver dell’economia era la produzione industriale, ed oggi spostatasi progressivamente nell’economia della conoscenza, nella finanza, nella formazione e nella ricerca. Nonostante ciò, mantiene un’anima importante legata alla manifattura.
Per questo motivo nasce a Milano NeMa (Rete Nuove Manifatture), una rete di imprese di cui OpenDot fa parte, che ha proprio come obiettivo quello di aiutare le aziende a fare questa transizione verso il mondo della tecnologia. Per noi non si tratta (solo) dell’acquisto di nuovi macchinari, ma è proprio capire le potenzialità che la tecnologia abilità e quali processi rende possibile.

Cerchiamo di fare percorsi simili a quello fatto con Versace, che non ha portato solo allo sviluppo di una soluzione, ma soprattutto alla comprensione e all’integrazione di una nuova tecnologia e quindi a nuove possibilità all’interno del sistema produttivo.

Siamo convinti che supportare la trasformazione digitale delle aziende voglia dire creare nuove possibilità in questo mondo connesso, internazionale e immateriale, mantenendo il grande valore che Milano ha da offrire.
La manifattura urbana è una grande arma contro lo svuotamento di competenze che le città rischiano di subire e una possibilità concreta di affrontare le grandi sfide che ci troviamo davanti: produrre localmente significa riuscire a creare catene del valore corte, intervenire sull’economia circolare, ridurre l’impatto dei trasporti, dare più valore agli oggetti che abbiamo e contrastare la logica del consumo sfrenato dell’usa e getta.