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Negli ultimi anni, le più importanti sfide dell’umanità ci stanno cogliendo troppo spesso impreparati nel rispondere in modo reattivo, efficiente ed inclusivo. Improvvisamente essere in un mondo globalizzato e iperconnesso, significa che ciò che accade in Cina ci riguarda tutti da vicino e la premessa, affinché una soluzione sia efficace, è che venga adottata su larga scala e globalmente.

La pandemia non è l’unico caso che ha impattato l’intero pianeta senza trovare una risposta rapida ed adeguata, a volte nemmeno da parte dei paesi tecnologicamente più avanzati.
Basta pensare alle isole di plastica negli oceani o delle conseguenze del riscaldamento globale, come i fenomeni migratori o l’impatto sull’agricoltura, fino all’acidificazione degli oceani.
Eppure la tecnologia non è mai stata così avanzata e accessibile come oggi: leggiamo storie di innovatori visionari che vogliono connettere il cervello umano direttamente ad un computer o di grandi benefattori che finanziano con miliardi di dollari progetti sulla sanificazione dell’acqua.

Questa dinamica è figlia di un modello di innovazione che potremmo definire “Innovazione Centralizzata”, che ruota intorno all’eroe-inventore, una persona fuori dal comune in grado di risolvere problemi altrimenti impossibili e capace di cambiare da solo il corso della storia.
Un modello a noi familiare dai tempi di Leonardo Da Vinci o Marie Curie, fino ai giorni nostri con Steve Jobs o Elon Musk. Storie straordinarie, spesso romanzate, così forti da aver forgiato l’archetipo narrativo dell’innovazione che tutti noi abbiamo in testa.
L’innovazione centralizzata è un modello che viene da lontano, e nasce ancor prima di Leonardo Da Vinci, in un’epoca in cui pochi brillanti inventori e artisti, finanziati da illuminati mecenati, erano responsabili delle innovazioni culturali, artistiche e tecnologiche che hanno caratterizzato periodi storici e rivoluzioni culturali. Dei popoli invece, di chi viveva il cambiamento, si parla poco. Le “persone comuni” non hanno mai avuto un ruolo vero e proprio e non sono mai entrate nella storia insieme ai loro celebri contemporanei.
Perdipiù possiamo affermare che il modello dell’innovazione centralizzata non ha solo resistito, ma si è rafforzato nell’ultimo secolo. Principalmente grazie a tre aspetti chiave:
1. perché è perfettamente in linea con il modello economico attuale, anzi ha contribuito a crearlo, secondo alcuni studiosi. Questo perchè un prodotto innovativo può diffondersi rapidamente e produrre grossi guadagni sia per gli ideatori che per gli investitori.
2. perché l’eroe-innovatore è uno stereotipo che tutti noi conosciamo, che ammiriamo e che ci incuriosisce. Questo rende la comunicazione dell’innovazione centralizzata più efficace, più universale e più semplice.
3. perché il nostro ruolo è solo quello di utente o acquirente: è semplice, gratificante sul momento e ci deresponsabilizza.
Oggi però siamo di fronte a sfide nuove, di altra natura e scala. Pensiamo al riscaldamento globale, alle ingiustizie sociali, all’accesso all’educazione, alla riduzione della produzione di plastica monouso, al contenimento della pandemia, alla disuguaglianza di genere… solo per citarne alcune. Tutti i cambiamenti radicali di cui abbiamo bisogno sembrano essere al di fuori della portata dei singoli innovatori, delle start-up innovative, delle grandi aziende e forse persino dei singoli governi.
Abbiamo bisogno di un nuovo approccio all’innovazione. Ci sono fenomeni che non sono risolvibili, se non lavorando a livello sistemico e includendo la collettività.
E’ ingenuo pensare che l’invenzione di una nuova bioplastica risolva il problema della plastica monouso e dell’inquinamento dei mari, così come sperare che il sistema economico attuale possa intermediare equamente le relazioni fra tutti gli attori coinvolti.
Per questo motivo ad un’innovazione vigente centralizzata dobbiamo affiancare un nuovo modello di innovazione, perché le sfide attuali non hanno né colore né latitudine, sono intersezionali e coinvolgono tutti noi. A sfide sempre più distribuite diventa urgente rispondere dunque con un’Innovazione Distribuita.
L’innovazione distribuita è un modello basato su cinque fattori chiave e può aiutare ad affrontare più efficacemente molte delle sfide a cui oggi fatichiamo a dare risposta.Tali fattori sono:
1. Impact
L’innovazione distribuita nasce dall’impatto che si vuole ottenere e dalle necessità di persone e pianeta. L’obiettivo è rispondere rapidamente e testare sul campo una potenziale soluzione prima di domandarsi chi potrebbe acquistarla. Si punta alla sostenibilità economica, non alla massimizzazione del profitto.
2. People
È fondamentale coinvolgere le persone e le community, non solo figure influenti e di rilievo. Perchè soluzioni apparentemente utopistiche diventino fattibili, è fondamentale che vengano adottate da una grande quantità di persone, ma soprattutto che lo facciano in modo consapevole. Gli utenti e le community non sono acquirenti che scelgono per convenienza, ma hanno un ruolo attivo nel capire, mettere in pratica e diffondere l’innovazione. E i “follower” sono importanti tanto quanto i “leader” dal momento che si fanno promotori di un cambiamento.
3. Openness
Essere aperti e inclusivi massimizza l’impatto positivo, perchè il cuore dell’innovazione distribuita è la replicazione delle soluzioni e non la protezione delle idee. Per avere un impatto globale è fondamentale che le idee circolino liberamente. Non si tratta solo di condividere progetti e codice in open source, ma diffondere e promuovere ideali e metodologie per metterli in pratica. L’impatto scala per replicazione, non per accrescimento delle strutture che lo generano.
4. Benefit
Se l’innovazione è distribuita, anche il beneficio che genera deve esserlo. Oltre a nuovi modelli economici che considerino anche l’impatto sociale, servono sistemi per tracciare il contributo di tutti gli attori, per ridistribuire equamente il beneficio generato. Questo consentirebbe a molti di rimanere una parte attiva del network e sposterebbe l’attenzione dal tornaconto personale al contributo portabile al network.
5. Network
L’innovazione è plurale e nasce dalle reti, più che dai singoli innovatori. Questo siginifica che cambiano le regole per massimizzare l’impatto ottenibile. La gestione dei ruoli, il carisma delle figure principali, la suddivisione dei compiti, l’apertura ai suggerimenti, l’integrazione delle proposte, sono tutti passaggi critici per lo sviluppo di network efficaci nello “scalare per replicazione” innovazioni diffuse.
Ma quali sono i problemi che avrebbero davvero bisogno di un approccio distribuito all’innovazione e che oggi facciamo fatica ad affrontare con i modelli attuali?
In primis, tutti i problemi causati o aggravati da un comportamento distribuito, ovvero indipendentemente adottato da tante persone. Sono sfide che difficilmente possono essere vinte introducendo un nuovo oggetto o una nuova tecnologia, se contemporaneamente non si interviene anche sul comportamento delle persone stesse: in molti casi un’innovazione affronta solo i sintomi di un problema, più che le sue cause. Un esempio lampante è il caso delle automobili: dagli anni 80 ad oggi i motori sono diventati sempre più efficienti, eppure l’inquinamento dovuto al trasporto privato è aumentato.
Una seconda categoria di sfide sono quelle che impattano molte persone in diverse aree del mondo, con culture, capacità d’acquisto, valori diversi, etc.
In questi casi è molto difficile immaginare che un’innovazione centralizzata, possa essere adottata facilmente in contesti così eterogenei.
La possibilità dell’innovazione distribuita di essere adattabile, di modificarsi ed evolvere insieme alle community locali offre una leva in più, non solo per diffondersi e raggiungere un maggior numero di persone, ma anche per farlo in modo rispettoso e inclusivo.
Un ultimo caso è quello delle sfide che sono affrontabili solo mettendo a sistema molti attori, e collegandoli tra loro con catene del valore lunghe. Pensiamo alla circular economy: il modello più diffuso ad oggi è quello trasformativo delle grandi aziende, ovvero sperare che le aziende si prendano cura di tutte le conseguenze della produzione industriale e che cambino il sistema produttivo. Questo non è assolutamente sufficiente: per arrivare ad un cambiamento radicale della società servono progetti di collaborazioni tra realtà di scala diversa — multinazionali e piccole realtà locali, grandi aziende e start-up innovative, etc., e di natura diversa — imprenditori e studenti, policy maker e cittadini, persone appartenenti a culture e generazioni diverse, etc..
Solitamente le innovazioni centralizzate si inseriscono su piccoli tratti di catene del valore esistenti, raramente ne cambiano la struttura, per questo non sono sufficienti in catene del valore lunghe e complesse come queste.
Il network dei Fab Lab e delle Fab City, inconsciamente applicano già molti di questi princìpi: se dovessimo formalizzare il processo nella sua interezza e individuarne gli aspetti chiave potrebbe aumentare l’efficacia e l’impatto dei progetti.
Pensiamo per un attimo alla risposta maker alla pandemia: il sistema produttivo industriale ha fallito sia nel reagire prontamente, che nello scalare velocemente le soluzioni che nascevano dal basso. L’unico approccio efficace è stato quello di produrre e progettare in modo distribuito e collaborativo: quello che abbiamo visto è stato veramente un esempio di innovazione distribuita, che utilizzava il Viral Design come processo progettuale.

The shift from a ‘Products In Trash Out’ (PITO) model to a ‘Data In Data Out’ (DIDO) self-sufficiency model — © Fab City Global Initiative
Ad oggi, purtroppo, la tendenza è quella di differenziarsi più che di abbracciare o rafforzare un movimento già in atto, e gli investimenti sono largamente sproporzionati in favore della creazione di qualcosa di diverso, piuttosto che della replicazione di qualcosa di innovativo, benché già realizzato e funzionante altrove.
La strada per arrivare a riconoscere l’innovazione distribuita come un modello di innovazione altrettanto importante ed efficace quanto quella centralizzata è ancora lunga, e dovrebbe essere accompagnata da trasformazioni necessarie — quali ad esempio ribaltare i paradigmi della comunicazione dell’innovazione e la redistribuzione del valore economico che essa genera.
Ma la buona notizia è che il network dei Fab Lab ha dimostrato di aver sperimentato già, in modo assolutamente spontaneo, progetti di innovazione distribuita, e potrebbe dare una chiave di lettura nuova e inesplorata su come affrontare le grandi sfide che si pongono davanti a noi, uscendone più giusti, più equi e più interconnessi.